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"Uno sguardo da lontano"
Il ritratto fotografico della Venezia ottocentesca


dal 11 ottobre al 15 novembre 2003 presso la galleria di via Inferiore, 28 a Treviso
con i seguenti orari dalle 16,00 alle 19,30 (escluso domenica)
inaugurazione
sabato 11 ottobre ore 18.30

 

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Phoenix 1979
Colombo Coen e Figlio:
impagliatore di seggiole 1865 ca.

Fondamentalmente anche l'essere umano è una specie animale da sempre assoggettata alle esigenze di identificazione con un proprio territorio, con una personale area di rispetto. Il fatto di marcare tale territorio con elementi facilmente riconoscibili ai sensi degli altri individui delle propria specie (o di specie diverse) che interagiscono nello stesso luogo, è una caratteristica che ci accomuna con tutti gli esseri viventi ed anche se l'evoluzione, facendoci divenire la specie dominante, ha cancellato certe forme di contrassegno, come quelle legate all'udito ed all'odorato (che ormai fanno parte dell'archeologia antropologica), tutti conserviamo una precisa attenzione verso la dimostrazione della nostra presenza fisica nella realtà che ci appartiene.
La lotta serrata per il riconoscimento della partecipazione personale alla quotidianità, ci coinvolge da tempi lontanissimi nella storia, epoche che nessuna traccia, o quasi, hanno lasciato di tale assoluta esigenza di rappresentarsi od essere rappresentati.
Quando, oltre alla normale competizione con altri individui della nostra specie, ormai divenuti i soli nemici con i quali dover sostenere il cimento per il possesso di un territorio, sorse l'individuazione nel fluire delle cose, nel Tempo dunque, si scoprì il massimo avversario contro il quale scagliarsi al fine dell'affermazione della propria essenza. Ma l'impari combattimento ha lasciato solo vinti lungo la strada della storia
Di loro sono rimaste, al massimo, solo labili tracce o deboli lacerti, confermanti a malapena l'assunto che un giorno essi furono vivi.
Graffiti, sculture, affreschi, dipinti, disegni, incisioni, sono state le forme di rappresentazione con le quali, fin dagli albori della civiltà, artigiani ed artisti, vestendo i panni del medium, ci hanno regalato l'immunità dall'oblio, fingendo di donarci l'eternità.
Chi maggiormente possedeva fortune e potere, fieramente si faceva rappresentare in somma quantità di immagini, equilibrando validamente la propria indole egocentrica. E quei ritratti in marmo, ad olio su tavola o su tela, a tempera su carta o malta fresca, disegnati od incisi, su pietra o su legno, su lastra di rame o di acciaio, oppure graffiti, forgiati, sbalzati, intarsiati, fusi o plasmati, si sono sedimentati nella nostra storia, significando ancor più che tutto scorre.

Fu in un giorno non precisamente identificato, di un'epoca attorno all'anno 1839, che tra le forme di identificazione dell'effige umana, fu da annoverare un nuovo metodo di scrittura iconografica: la fotografia. L'invenzione lasciò strabiliato il mondo intero: mai si sarebbe potuto ideare un'immagine così dettagliata, tanto da superare in fedeltà di precisione qualunque artista, anche il più grande. Purtroppo, al contrario di vedute e nature morte, problemi tecnici legati alla sensibilità dei sali d'argento (i quali, investiti dalla luce, davano forma all'immagine) sembrarono impedire la ripresa di ritratti, tanto che lo stesso François Arago, rappresentante dell'inventore della fotografia, Louis Jacques Mandé Daguerre, presso l'Académie des Sciences e l'Académie des Beaux-Arts di Parigi, appositamente riunite il 19 agosto 1839, disperava che l'invenzione fosse utile per quello scopo.
Ma già un mese dopo i primi esperimenti ottengono un qualche successo e lo stesso Daguerre, in un suo manuale pubblicato nel mese di novembre (29 furono le edizioni solo in quel 1839, in sei lingue) dichiarò che <<Per eseguire un ritratto è necessario disporre di una luce intensa; e questa precauzione è tanto indispensabile quando la carnagione del soggetto è di colore intenso, perché il rosso è, per così dire, l'equivalente del nero>>.
Secondo Helmut Gernsheim nel suo Le origini della fotografia il primo ritratto eseguito in Europa, del quale esista una documentazione effettiva, fu preso a Parigi nell'ottobre, anche se l'effigiato fu colto con gli occhi chiusi e con una smorfia sul volto, a causa della difficoltà di tenere uno sguardo rilassato, in una posa di diversi minuti sotto una luce accecante. La perfetta immobilità, principio fondamentale per l'ottimale riuscita di una fotografia, almeno in tempi lontani dalla conquista dell'immagine istantanea, era un fatto scontato per oggetti inanimati, meno per la persona in posa. Ma molti furono egualmente i volontari, condizionati dalla spinta emotiva della straordinaria novità, che affrontarono il supplizio. In breve, comunque, gli ostacoli furono velocemente sorpassati dall'evoluzione dei materiali e della tecnica, ed il dagherrotipo (fotografia su lamina di rame argentata) divenne facilmente accessibile per molti.

Friederich Karl Vogel:
gruppo di famiglia 1857 ca.

 
Antonio Sorgato: due donne in un interno 1863 circa

Fu, in ogni caso, l'evoluzione del procedimento inventato da Henry Fox Talbot, fatto della possibilità di riprodurre sulla carta attraverso l'uso del negativo, una o più copie dell'immagine d'interesse, a condurre la fotografia sul binario che ci ha portato fino ai nostri giorni, nei quali la tecnica di ripresa digitale sta nuovamente cambiando i connotati esecutivi di quella che, indubbiamente, è la massima forma di espressione visiva contemporanea.
Venezia fu, fin da subito, un città particolarmente ricettiva per i fotografi dell'epoca pionieristica, siano essi stati amatori o professionisti, grazie alla presenza di importanti architetture di elevata valenza storico-estetica ed all'affascinante atmosfera di un luogo da sempre baricentro di scambi commerciali e culturali con il vicino oriente, cosa che le aveva donato l'impronta di avamposto levantino nell'Europa continentale.
Oltre i grandi interpreti della nuova arte che fotografarono le bellezze della decaduta capitale della Repubblica Serenissima (Ellis, Ruskin, Piot, Bisson, Walther, Quinet, Lorent solo per

fare alcuni nomi) uno stuolo di fotografi itineranti cominciò ad affacciarsi sul neonato mercato dell'icona fotografica, cercando di piazzare tale innovativo prodotto, rivolgendosi verso la clientela locale.
Fu subito un grande successo: i clienti si recuperarono pescando nelle classi sociali più elevate, dato l'elevato costo del ritratto eseguito sulla lastrina argentata. Le soste dei fotografi di passaggio erano accompagnate da piccoli spazi pubblicitari acquistati sulla stampa locale, dove si avvertiva che presso l'albergo tal dei tali, una stanza era stata attrezzata a studio al fine di compiere dal nulla, il miracolo dell'apparizione dell'immagine fotografica. Tra i molti precursori precipitatisi in laguna, soprattutto da Francia e Germania, spiccano i nomi dei dagherrotipisti Ferdinand Brosy (giunto da Acquisgrana) ed Antonio Sorgato (trasferitosi da Padova), gli unici, appunto, dei quali esistano lavori attribuibili, anche se in numero assolutamente limitato (15 dagherrotipi conosciuti per Sorgato, tutti nella stessa collezione veneziana e 3 per Brosy). Per molti altri, più sfortunati, è calato il velo dell'oblio, cassati da una storia infida ed ostile che velocemente ha cancellato le tracce del loro passaggio e del loro lavoro.
Contemporaneamente alla tecnica dagherrotipica, ormai stabilmente giunta al massimo dell'evoluzione tecnica, veniva sviluppata la ricerca relativa alla fotografia su carta, da negativo, ben poco adatta ad essere usata per il ritratto, anche se gli esempi prodotti dalla scuola inglese che faceva capo a Henry Fox Talbot ed all'accoppiata Hill e Adamson, furono di una qualità talmente elevata da poter parlare di Romanticismo fotografico.

Francesco Scattola:
ragazza che legge 1880 ca.

Giovanni Jankovich:
ritratto di popolano 1875 ca.

Dopo il 1850, al passaggio del mezzo secolo, la scoperta del collodio come legante per i sali d'argento, del vetro come supporto per il negativo e dell'uso dell'albumina per la stampa, allargarono massimamente l'uso del mezzo fotografico, permettendo ad una fascia sempre più ampia di popolazione di poter accedere ai suoi prodotti.
Ma lo scatto in avanti in questa forma di democratizzazione dell'iconografia personale si deve certamente al fotografo francese Adolphe Disdéri che creò un'apparecchiatura capace di riprendere varie pose dello stesso individuo in una medesima lastra fotografica, le quale poi stampate e ritagliate erano incollate su di un cartoncino di formato suppergiù 6 centimetri per 9.
Era nata la carte de visite (che d'ora in poi chiameremo cdv), il formato fotografico per il ritratto più famoso dell'Ottocento, che dal 1855, anno del primo utilizzo, trovò impiego fin quasi alla seconda guerra mondiale.
Nei primi tempi regnanti ed aristocratici fecero la fila per assicurarsi alcune pose presso i più importanti studi fotografici, dando luogo ad un veloce rimpallo sulle classi sociali di rango meno elevato (tanto che già dieci anni dopo le classi più elevate avevano ripudiato il formato cdv, sostituendolo con il più elegante formato cabinet, di circa cm. 10 x 15).
Di basso costo, facilmente maneggiabile, essa divenne un vero e proprio biglietto da visita per gli individui di ogni classe sociale, dalla nobiltà alla plebe.
In tutta Europa fu subito di moda collezionare i ritratti di uomini illustri e personalità dello stato: raccolte in album in pelle o tela, spesso preziosamente decorati da intarsi in argento ed avorio, con fregi e chiusure in metallo dorato, quelle piccole fotografie ci permettono di comprendere il gusto o le tendenze politiche dell'antico possessore, di cui riflettono la personalità.

Ma la cdv era sempre un mezzo di rappresentazione individuale a tutti i livelli, poteva essere un modo di significare l'attenzione per la famiglia ed i legami parentali (lo scambio di immagini invitava all'emozione del ricordo), ma contemporaneamente l'icona fotografica simboleggiava il massimo della considerazione in se stessi, un tuffo nello stagno di Narciso ove ognuno, con la complicità del fotografo, poteva avallare il proprio personale autocompiacimento.
E' in questo periodo che moltissimi piccoli ateliers fotografici si aprono lungo i percorsi maggiormente battuti dai turisti stranieri giunti a Venezia nell'ambito del viaggio alla moda in quell'epoca: il Grand Tour. I nomi degli autori incominciano ad apparire in calce ai cartoncini delle cdv, dando corpo allo sviluppo di quel diritto al copyright che a tutt'oggi, nonostante siano passati centocinquant'anni, i fotografi faticano a veder rispettato. Professionisti famosi dediti principalmente alle riprese di veduta, come Francesco Bonaldi, Colombo Coen, Carlo Naya, Antonio Perini e, più tardi, Paolo Salviati e Tomaso Filippi, non disdegnarono di ritagliarsi una piccola fetta di mercato come fotografi ritrattisti, tralasciando per un attimo di puntare l'obiettivo sulle architetture o verso la laguna.
Antonio Sorgato (1825-1885), grazie alla non trascurabile sensibilità d'artista ed all'esperienza di fotografo maturata fin dagli anni '40, in breve diventa il più famoso ritrattista: nel suo studio di S.Zaccaria, campiello del Vin, aperto circa nel 1860, passa il fior fiore della clientela italiana e straniera. Con le sue fotografie si guadagnò numerosi riconoscimenti alle più importanti Esposizione Nazionali (Padova 1858, Firenze 1861, Padova 1869, Vicenza 1871, Treviso 1872, Vienna 1873) e la fama che ne giunse, gli permise di aprire altri ateliers a Bologna e Modena (in società con i fratelli) ed a Udine.

F.lli Vianelli:
ragazza alla finestra 1875 ca.

Antonio Sorgato:
Otto e Rica Kramer 1875 ca.

I suoi ritratti si caratterizzano per le ottime scelte scenografiche ed il gusto nell'impostazione dell'immagine, le quali, unite ad una particolare attenzione per i valori dei rapporti chimici (spesso trascurati dai fotografi veneziani, fatto che possiamo rimarcare nello stato di conservazione odierno delle fotografie), lo hanno condotto a degli splendidi risultati, soprattutto nei formati maggiori.
I concorrenti più agguerriti dell'atelier Sorgato furono certamente i fratelli Giuseppe e Luigi Vianelli, giunti a Venezia dalla vicina Chioggia, anche loro pluripremiati, altrettanto abili nell'impostazione scenografica delle riprese e forse maggiormente delicati ed eleganti nelle immagini di giovani donne, alcune di straordinario effetto.
Friederich Karl Vogel (1806-1865), tedesco di Francoforte, da dove si trasferì nel 1852, era a capo di una famiglia di artisti e fotografi (con lui collaboravano la moglie Giulia ed il nipote Carlo Reichardt) ed aveva lo studio a Palazzo Pisani. Oltre ad eseguire ritratti, collaborava con l'ottico ed editore Carlo Ponti di riva degli Schiavoni, eseguendo per lui quelle scene di genere di costumi popolari, così alla moda nell'Italia del dolce far niente, un soggetto tangente al ritratto su commissione, ma egualmente espressivo relativamente alla rappresentazione antropomorfica. Fu premiato alle Esposizioni di Aquisgrana, Amsterdam, Bruxelles, Francoforte e Londra ed anche se i suoi ritratti sono spesso rigidi e non particolarmente armoniosi, a causa della ripresa fin troppo frontale ed alla mediocre composizione della ripresa, i suoi sono tra i primissimi ritratti eseguiti su carta a Venezia.
Un discorso a parte meritano Carlo Naya e Vincenzo Giacomelli, per un particolare aspetto della loro attività di ritrattisti, non legata ad una committenza, ma ad una scelta iconografica creativa, dove la figura umana avesse una precisa rilevanza diversa, tendente al fatto artistico.

Il primo (1816-1882), certamente il più famoso fotografo veneziano (anche se era di origine piemontese), celebre per le vedute ed i chiari di luna, paesaggi di gusto romantico, eseguì dei ritratti di popolani nell'ambito di quel genere di cui abbiamo accennato, ma, nel suo caso, eseguiti in plein air e dotati di una forza emotiva che li rende vibranti ed assolutamente fascinosi. Vincenzo Giacomelli (1814-1890), un pittore di soggetti storici molto conosciuto in Venezia, eseguì alcune fotografie verso il 1870 (episodio che non ebbe seguito), raccogliendole poi in un album dal titolo Raccolta di Quadri storici e di genere. Un prezioso insieme di immagini di grande effetto, alcune legate a particolari momenti della storia della Repubblica, nel gusto, un po' tardivo ma comunque significativo, della fotografia romantica allora in voga in Inghilterra.
Altri ottimi fotografi gravitanti nell'area veneziana furono i fratelli Marco e Giovanni Contarini, attivi dal 1861 (Giovanni operò fin l'inizio del Novecento, poi lo studio fu ceduto a Giacomelli) che avevano l'atelier a ponte S.Moisè 2090, di fronte al ristorante Bauer; Michele Aschenbrenner (1827- ?) prussiano di Monaco, fotografo e pittore con studio in corte Torretta 865, giunto a Venezia nel 1858, città che lasciò per Treviso sette anni dopo. Giovanni Jankovich, attivo dalla seconda metà degli anni '60, successore sia di Antonio Sorgato che dei fratelli Vianelli (dei quali conservava le negative), interessante per una serie di ritratti di popolani molto caratterizzati nell'intensità di una condizione sociale di lavoro e di fatica.

Giovanni Contarini:
ritratto del patriarca di Venezia
Domenico Agostini 1902

Ancora, negli anni 1860-'80 erano ritrattisti Luigi Perini (con studio in S. Maria del Giglio 2513), i fratelli E. e L. Quarti, il pittore-fotografo Giuseppe Bettini, ed altri ancora dei quali si hanno solo pochissime notizie, ricavate per la maggior parte dai cartoncini litografati delle loro cdv, come F. Fantuzzi, i figli di Leopold Magnat (studio a S.Salvatore), la Fotografia Veneta di Simeone Jagher, Tommaso Sargenti (che poi prenderà D. Valenzin come socio, in calle Larga 373), la Nuova Fotografia al Teatro "La Fenice" (in campo S.Fantin, vicino la farmacia, precisa la scritta sul retro), Sebastiano Bressanin e poi verso la fine del secolo Antonio Dal Mistro (in calle degli Specchieri 65); C. Bianchini e Francesco Scattola (con atelier a campo S. Bartolomeo 5256).
Venezia è solo una scusa, perché qui, come altrove, il senso della rappresentazione individuale e della messa in gioco personale era rivelato, e tutti o quasi, potevano con poco farsi ritrarre e superare così uno storico enigmatico dilemma sulla certezza dell'esistenza. L'affrancazione da forme di sudditanza psicologica, retaggio della realtà individuale, poteva trovare, attraverso l'immagine fotografica, una via d'uscita, magari effimera e subdola, ma semplice ed esplicita.
Del nuovo equilibrio i fotografi, grandi artisti o semplici professionisti, furono gli artefici, tutti gettando una efficace e fondamentale traccia verso la modernità.

 

 

 

 

 

 

 

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